|
|
|
|
|
ROMA - I due si guardarono. Il più giovane aveva ventisette
anni. Dovevano lasciarsi, separarsi, dirsi le ultime cose. C'è
un punto della vita in cui devi per forza correre da solo, anche
se guardi allo stesso orizzonte. Si sarebbero di nuovo
incontrati, ma dopo, alla fine della curva. Sentivano di essere
sull'orlo di qualcosa, l'aria era elettrica. "Questa è la
volta buona", disse il giovane.
L'altro, l'allenatore, si meravigliò: non l'aveva mai sentito
così sicuro. "Dagli dentro", rispose. Sopra avevano il cielo di
Città del Messico, 2.248 metri sul livello del mare.
Universiadi, 12 settembre 1979, ore 15.15. Il ragazzo
andò ai blocchi, corsia numero 4. "E il vento suona la sua
armonica, che voglia di piangere ho". Messico e nuvole, meglio
non pensarci. Cominciò a piovere. Gocce leggere, fitte, dolci.
Il ragazzo guardò la pista, era liscia e consumata. Gli seccava
che nei giorni precedenti fosse comparsa la scritta
Petro Menea, il suo nome storpiato, senza la i e una
n sola, come la nazionalità, francese. Aveva tirato molto nelle
tre prove precedenti, aspettare l'ultimo turno era un rischio.
Si convinse o almeno ci provò: "Il mio punto di riferimento
saranno le voci. Quando arriverò, ascolterò, e saprò". Il
ragazzo partì con una fretta perfetta. 1.8 metri di vento a
favore. C'è sempre una magia nello scappare verso qualcosa. |
Corse come non aveva mai fatto in vita sua e superò il mondo.
Si lasciò dietro l'infanzia, i complessi, i torti, il suo sud.
Ci sono curve che ti restringono, sbandi, diventi piccolo,
mentre ai lati i muri crescono. Dove entri bambino e esci
vecchio. E altre: dove sbuchi nella felicità. Pietro Paolo
Mennea di Barletta corse la sua curva: senza perdere
velocità, con la spalla sinistra più bassa, remò per contenere
la sbandata. Il professor Carlo Vittori, suo allenatore,
notò che i muscoli del viso non erano contratti. Faticava come
una bestia invece il polacco Leszek Dunecki. Gli avevano detto
di fare la gara sul ragazzo italiano, di stargli dietro. Ma
dov'era? Laggiù, sei metri più avanti, in un altro secolo, già
arrivato. 19''72, record del mondo, nei 200 metri. "Il
pubblico urlò. Io capii, ma non ero sicuro. Non c'erano
tabelloni elettrici, allora. Mi girai. L'unico cronometro era
alla partenza. Guardai le cifre, forse che avevano sbagliato
anno? Eravamo nel '79 non nel '72, poi mi vennero tutti addosso,
ci fu una grande confusione".
Quel giorno l'Italia scoprì un altro Coppi. Veniva dal
meridione, era magro, un po' storto, molto contorto. Figlio di
un sarto. Suo padre tagliava abiti, lui si cucì l'atletica
addosso. Corse i primi cento in 10''34 e i secondi in 9''38. Una
progressione strepitosa: dai 100 ai 150 metri alla velocità di
40 chilometri orari. Quell'anno l'Italia capì che correre alla
Mennea era una scienza. Il professor Vittori studiava la
formula, Pietro Paolo la realizzava. Trent'anni dopo un record
così neorealista, made in Italy, non sembra più possibile.
Mennea che ha scritto un libro 19"72. Il record di
un altro tempo", ne è sicuro: "Noi abbiamo indicato una strada
che ora tutti hanno abbandonato. Forse c'è ancora qualcuno che
conosce la misura della fatica, ma è diversa, non sarà mai
quella nostra. Su 365 giorni l'anno, tutti di allenamento, ne
saltavo solo 15. A casa mia, a Barletta, tornavo solo tre volte.
Per il resto, sempre a Formia, mattina e pomeriggio, anche a
Natale e Pasqua. Alla sera mangiavo come un matto, ma niente
alcolici e cibo piccante. Stavo in un albergo che ospitava
ricevimenti nuziali, a me andavano i resti, era una pacchia:
antipasti, primi, secondi, contorni, frutta, dolci. Ero abituato
bene, con mia madre che mi preparava la pasta al forno alle tre
di pomeriggio. Non sono mai stato male di stomaco e a livello
muscolare in 20 di attività non mi sono mai strappato. Quelli
che si allenavano con me, non reggevano il ritmo, se ne andavano
dopo un anno, sfatti. Quando Vittori nei convegni mostrava il
programma di lavoro gli chiedevano: "ma chi ha fatto queste cose
è ancora vivo?".
Ci sono record che non sfondano solo il tempo, ma che
bucano anni. "Nessuno mi dava credito, quel primato sembrava
destinato a cadere in fretta. Infatti è durato 17 anni. Dal '79
al '96, al 19''66 di Michael Johnson. C'è un destino nei numeri:
corsi sulla stessa pista dove Tommie Smith nel '68 aveva
stabilito il mondiale con 19''83. Undici anni prima. E io
migliorai quel tempo di 11 centesimi. Come anche Bolt a Berlino.
Ero in forma, affrontavo tutti, battevo gli americani. Incontrai
Muhammad Ali a Las Vegas. Mi presentarono come l'uomo più veloce
del mondo. Lui mi squadrò sorpreso: 'Ma tu sei bianco'. Sì, gli
risposi, ma sono nero dentro". Nessun bianco da quel '79 ha più
corso una curva così perfetta. E oggi dietro a Bolt e al suo
19"19 Pietro Paolo Mennea sarebbe secondo, medaglia d'argento.
Ci sono curve che proprio non si raddrizzano mai.
(8 settembre 2009)
|
|
|
https://www.repubblica.it/
|
Altri calendari
|
Forum
|
|
|
|
|